Equilibrio

Nel ballo l’equilibrio occupa un posto importante. Possiamo dire che è essenziale mantenere tre genere di equilibri: personale, di coppia e di movimento.

Porco cane, detta così sembra proprio difficile !

Giannino Gallinacci in fatto di equilibrio non temeva concorrenti: fin da bambino camminava per divertimento sul cordolo dei marciapiede un passo dietro l’altro senza scomporsi, saliva su tutti i muretti a secco lungo la strada provinciale e camminava spedito senza tentennamenti, era sicuro che sarebbe stato capace di camminare anche sul filo sospeso se solo gli avessero spiegato come si tende il filo e anche che razza di filo sia.

In officina portava  fino a quattro barattoli d’olio motore uno sull’altro con la sola mano destra e su una sola gamba, saliva sulle passerelle di legno dei ponteggi e si divertiva a far finta di cadere giù facendo gridare i presenti dalla paura.

Possedeva insomma quella dote naturale di stabilità dovuta al baricentro basso ed al peso piuma, arricchita da buoni piedi taglia quarantatrè e polpacci muscolosi.

Quando ballava Giannino ballava il liscio, preferibilmente polka e mazurca, alla Casina di Vetro nel quartiere della fiera, e non aveva problemi a condurre la ballerina di turno in vorticosi giri. Non era proprio ortodosso come tecnica, la sua scuola era stata unicamente la balera, li, osservando gli altri e provando e riprovando, aveva appreso le regole ed trucchi per girare e cambiare posizione. Certo il portamento di danza non era bellissimo a vedersi, un po’ altalenante procedeva a saltelli inventando piroette e giravolte che parevano avvitarlo alla pista, però era efficace.  Per questo le ragazze del quartiere non si negavano anche se poi una volta finito il ballo doveva riaccomodarle a sedere perché da sole sbandavano per il giramento di capo. Certo era meglio esser state leggere a cena o non aver bevuto troppi bicchieri perché dopo c’era il rischio di fare i maialini in pista.

Per mantenere un giusto equilibrio nel ballo occorre essere coscienti del proprio centro di gravità. Il centro di gravità va trovato, curato, capito e usato per una buona tecnica del movimento.

Giannino non sapeva niente del centro di gravità, se proprio avesse dovuto dire dove era il suo centro di gravità avrebbe fatto un gestaccio volgare portandosi le mani sul suo rispettabile pacchetto anteriore e avrebbe detto una vaccata, era orgogliosamente ignorante, tuttavia sapeva che per piroettare agilmente doveva stare col peso più in basso possibile, così sentiva la forza delle cosce e dei polpacci e poteva scattare ripetutamente con strappi violenti come quando andava in montagna con la bici da corsa.

Le flessioni  devono sempre essere protese verso il centro di gravità in modo che un partner possa mantenere l’equilibrio senza il supporto dell’altro partner, ciò per evitare fatica; è necessario flettersi ed estendersi con naturalezza.

Anche delle flessioni Giannino non sapeva niente, però piegava le ginocchia quanto bastava per darsi slancio senza finire addosso alla ballerina. Questo movimento lo aveva imparato a proprie spese dopo essere più volte rovinato in braccio alla damigella sdegnata spiattellandola  per le terre, precarietà di equilibrio condiviso, appunto. In quanto alla fatica ci voleva ben altro che un ballo per sfiancarlo, Giannino era uno che lavorava dieci ore il giorno col sorriso sulle labbra.

Ogni parte del corpo che si muove deve sempre essere attenta e far riferimento al centro di gravità del corpo in movimento.

Effettivamente Giannino era attento, molto attento e curioso, ma più verso quello che succedeva intorno che verso il proprio corpo: non voleva perdersi  nulla di quel che succedeva in pista e tra il pubblico, amava farsi vedere e salutare gli amici e rideva fregandosene del centro di gravità. Le parti del corpo gli si muovevano autonomamente e con allegria: le braccia si agitavano in su e giù come pale di mulino, la testolina vagava a destra e a manca sul perno del collo e le gambe si muovevano freneticamente di motu proprio indipendentemente da tutto il resto.

Il centro di gravità è sempre in movimento e assume la sua posizione in base ai movimenti, alle rotazioni e alle mutevoli posizioni di coppia.

Era meglio se non muoveva il suo cosiddetto centro di gravità perché quando ciò accadeva si trasformava in una parodia dell’atto sessuale fratto di scatti del bacino avanti e indietro, avanti e indietro  accompagnati da grasse risate non sempre raccolte con scherzosità dalla ballerine che più di una volta lo avevano piantato in asso sdegnate a quel gesto.

Una delle difficoltà maggiori consiste nel riuscire a mantenere la buona posizione durante tutta la competizione senza far “soffrire” il partner né scomporre la coppia.

Non è che facesse soffrire le compagne di ballo, anzi si divertivano assai, bastava che fossero coscienti di cosa le aspettava entrando nel vortice delle sue mazurche:  chi si lanciava con lui si divertiva garantito, meglio che sul calcinculo dei giostrai della festa di Sant’Antimo, e pure gratis.

Niente gonne strette o scarpe col tacco alto, piuttosto abbigliamento da trekking e biancheria intima rinforzata per non correre rischi di rimanere denudate nel corso degli avvitamenti. In quanto alla posizione di certo non era in grado di mantenerla stabile sennò che divertimento era.

La contrazione dei muscoli deve essere in perfetta sintonia coi movimenti di estensione e conferire al corpo “flessuosità” morbidezza di movimento e un controllo rilassato e soffice.

Quanto alla contrazione dei muscoli meglio soprassedere, come sull’argomento della flessuosità: quei termini gli avrebbero richiamato pensieri a sfondo sessuale che lo avrebbero sicuramente distratto dal ballo. “Non son mica finocchio!” tagliava corto con chi gli faceva notare una certa mancanza di grazia  nelle sue trottole.

Se uno dei partner sente fatica significa che lui o l’altro partner sta facendo qualcosa che non va.

Giannino era sicuro di far bene, le altre si arrangiassero a stargli dietro, non aveva molto riguardo per la dama più che altro perché era troppo felice  e preso dalla propria energia per curarsi di quello che provava la sventurata di turno.

Nei vari movimenti la dama reagisce all’iniziativa dell’uomo con una intensità dieci volte maggiore a quella messa in moto dal proprio partner.

Le reazioni della dama occasionale erano le più svariate: qualcuna partiva in  quarta assecondando i suoi tempi e il turbinio di braccia e di gambe  che spazzolavano la pista come un rotowash, altre dopo pochi passi si pentivano di aver accettato il giro ed essere salite a bordo e si ranicchiavano facendosi il più piccine possibile in attesa della fine della sofferenza con uno sguardo tra l’atterrito e l’attonito. Una volta la Teresa, la guardarobiera della Casina di Vetro, di mole robusta e pochi complimenti, che dopo tanta insistenza aveva finalmente accettato il suo invito, frenò immediatamente dopo pochi passi e gli mollò un ceffone pensando di punirlo come si fa coi bambini troppo irrequieti.

 

Le inclinazioni non devono servire solo per migliorare l’equilibrio durante le rotazioni, ma anche e soprattutto per imprimere al movimento l’importante effetto di swing.

Beh lo swing per Giannino era il “sing” e voleva dire presentarsi in pista abbigliato alla Tony Manero con completino bianco e camicia nera e dondolare le spalle camminando e masticando cingomma.

Giannino non era un adone, piccoletto e mingherlino con capelli rossi ed una barbetta che lo faceva assomigliare inevitabilmente ad uno gnomo. Faceva il meccanico di trattori sulla provinciale per la collina, operaio a tempo indeterminato ma solo finche c’era lavoro, e per ora ce n’era sempre stato.

Era benvoluto da tutti perché era allegro e disponibile, e poi era piccino e faceva tenerezza. A Natale faceva il lanternino nella processione del presepe vivente, cioè il bambino che apre la sfilata addobbato da pastorello con la lanterna in mano e per l‘occasione si faceva anche la barba, a Pasqua nella ricostruzione della passione del venerdì santo faceva il centurione romano strappando un sorriso bonario a tutti, tanto che lo chiamavano “cinturino” .

Aspettava la domenica pomeriggio per andare a ballare e l’estate le sagre della polenta o del cinghiale e roba del genere che si concludevano immancabilmente con la serata di liscio. Non aveva nessuna relazione stabile, solo qualche battona a pagamento raccolta sullo stradone dell’ipermercato che gli finiva mezzo stipendio in una serata ma che lo rimetteva a posto nei punti essenziali.

La sua vita passava così e Giannino era  convinto che fosse una buona vita fatta di sentimenti semplici e naturali, un poco ingenui e senza grosse pretese.

Se la gustava fra pastasciutte abbondanti, ore in officina e giri di mazurca, senza litigare con nessuno e senza invidiare quelli apparentemente messi meglio di lui.

Forse non aveva un gran equilibrio nel ballo ma sicuramente possedeva un notevole equilibrio nell’affrontare la vita.

Cavanatte

Lo chiamavano Cavanatte perché segnava porri, verruche e malocchio nel paese e dintorni, ma di mestiere faceva il contadino ed aveva un bel podere tutto suo.

Non gli mancava niente e segnava gratis per quelli che glielo chiedevano, pare anche che le sue segnature funzionassero tanto che lo impegnavano fino a tardi dopo cena dopo che era tornato dal lavoro vero. Lui lo faceva volentieri,  aveva il “dono” ereditato geneticamente dalla madre e come lei sentiva di doverlo condividere con generosità  con chiunque avesse bisogno di lui.

Era un omone alto e grosso con braccia nerborute e fianchi tosti, un colosso da far paura e con lo sguardo accigliato, ma buono come il pane e grezzo come si conviene. Un uomo semplice.

Il sabato sera andava al Cucharacha, la balera del comune vicino specializzata in balli caraibici e ballava il merengue e la bachata ancheggiando come una puttana.

Aveva una partner fissa che si chiamava Adele Imperial e che faceva la sarta; non arrivavano mai assieme al locale, lei con la panda,  lui col furgone, sedevano a tavoli vicini ma ognuno per conto proprio come se non si conoscessero e l’incontro avvenisse per caso, poi appena partito il primo pezzo di bachata ritmata, si gettavano in pista e si avvinghiavano cosce contro cosce, bacino contro bacino sculettando a più non posso ed agitando braccia e spalle.

Sguaiati come pochi si dimenavano sbracciandosi e sudando a refe nero. Pareva che lui volesse farsela lì, in mezzo alla pista.

L’Adele faceva Imperial di cognome, ma non era discendente da una famiglia nobile né tanto meno imperiale: era sarta brava e laboriosa, con un po’ di annetti sulle spalle e un matrimoniaccio fallito con un pezzo di delinquente.

Si cuciva dei vestitini da ballo che erano una favola e una promessa: grandi scolli e spacchi, stretti in vita, anche se la vita non era più stretta. La foderavano, come si dice, come un guanto, mettendo in mostra una mercanzia sovrappeso matura, ma sempre appetibile per uomini forti di braccia e di lombi.

Non aveva ufficialmente nessuno, ma tutti sapevano che se la faceva col Cavanatte come degno finale di serate di balli provocanti e famelici.

Lavorava duro per tutta la settimana fregandosene dei pettegolezzi e delle battutine di chi non ha di meglio da fare; era una donna forte che ne aveva passate di tutti i colori e non era certo qualche chiacchiera in più che  avrebbe potuto intimorirla, faticava per mantenersi indipendente e libera dagli uomini come il suo ex e per potersi scegliere chi le pareva e quando.

Si era così conquistata una rispettabilità accettabile anche in quel paesone un po’ bigotto della pianura e si riteneva una donna quasi libera, il quasi era legato all’ex marito che poteva sempre costituire una minaccia per la sua tranquillità.

Per quello le piaceva il Cavanatte perché era buono e giusto, e pure grosso, avrebbe saputo difenderla e, all’occorrenza, le levava anche il malocchio..

La storia era nata per caso dopo una serata di merengue sempre più appiccicosi fatti di inciuci, sombreri, sciarpe e strofinamenti che avevano eccitato i sensi di lui in maniera  vistosa, tanto che le aveva fatto una corte serrata, ma tanto serrata che a mezzanotte erano finiti nel retro del furgone di lui a completare la festa in maniera adeguata.

Al Cucharacha ormai erano di casa: passavano la settimana ognuno per conto proprio a faticare e tirar la carretta e si davano appuntamento da un sabato all’altro, compresi prefestivi e santo patrono.

Il giorno prima lui ripuliva per bene il furgone dalle granaglie e dagli attrezzi del campo e ci piazzava dentro un materassone gonfiabile da campeggio con tanto di luce di cortesia e coperte, poi al sabato si scatenavano in sala fingendo di essere lì per caso e, più tardi si scatenavano in altra modalità sul retro del furgone.

Era un menage che funzionava e che nessuno dei due aveva il coraggio di cambiare addentrandosi in relazioni più serie e impegnative.

Tutto filava liscio fino al giorno infausto in cui al Cucharacha, dopo una spiata da parte di ignoti, si mormora che gli ignoti non fossero tali bensì quelli del Macumba locale concorrente del paese vicino, accaparono assieme la Guardia di Finanza, la Siae e la Asl ovvero la peggior congiunzione di cataclismi che si possa temere, e scoppiò la tempesta perfetta dei locali da  ballo.

Non c’era praticamente niente in regola: scontrini due ogni dieci, libri contabili neanche a parlarne, uscite di sicurezza bloccate, bagni orrendi e pure gli estintori erano finti.

Risultato: sigilli al locale  e denuncia per il gestore, niente bachata al sabato sera e niente appuntamento per Cavanatte e Adele.

Quel sabato quando i due si presentarono ignari, ognuno per proprio conto e trovarono il Cucharacha chiuso, rimasero talmente sorpresi da non riuscire a reagire in alcun modo. Si fermarono davanti l’ingresso con altri avventori capitati senza saper niente a far congetture sulla sorte del locale e della serata, poi, lentamente, ognuno riprese la strada verso altre destinazioni e, sconsolatamente Adele lanciò uno sguardo al Cavanatte fece una smorfia di delusione e senza dire niente, risalì sulla panda verso casa.

Anche lui si avviò mestamente verso il furgone,  salì e se ne andò.

Passarono le settimane, i due senza il Cucharacha non avevano la scusa per ritrovarsi, era come se  mancasse il movente per far scatenare la passione, come se la loro relazione traesse ragione e vigore solo grazie a quel locale.

Cavanatte segnava i porri distrattamente e non li mandava più via, levava il malocchio senza convinzione e le sciagure non abbandonavano i malcapitati, era triste e sconsolato.

Adele aveva smesso di cucirsi nuovi abitini leggeri, si limitava al suo lavoro di routine senza passione.

Passarono anche i mesi e Cavanatte aveva voglia di lei e il locale era sempre sigillato e il furgone era sempre sporco.

La storia potrebbe finire qui, con i due che non si ritrovano, perché il Cucharacha di fatto non fu più riaperto: ci volevano troppi soldi da investire per risistemarlo ed il gestore se ne era scappato a Cuba a veder ballare i caraibici dal vero.

Però l‘Adele era sveglia, più sveglia di lui è ovvio, e anche cocciuta, e non voleva perdersi l’uomo per colpa di un cretino di amministratore che non faceva bene il suo lavoro di localaio.

Così decise di fare il primo passo e andare da lui con la scusa di farsi segnare il malocchio.

Cavanatte quando se la vide davanti provò un brivido prolungato fra il groppone e le spalle, gli mancava da morire e non sapeva come dirglielo. Allora si limitò a segnarle il malocchio con tutta la concentrazione possibile e poi le chiese se voleva fare un giro in furgone. Adele non aspettava altro.

Morale della favola: la sera non era sabato ma mercoledì, il furgone non era pulito ma pieno di balle di sementi, l’Adele non aveva il suo vestitino provocante e non c’era la musica, ma mai  quel rapporto fu più dolce di quella volta e delle volte che vennero in seguito.

Per la cronaca l’Adele non aveva il malocchio.

A proposito della beguine

Nelle balere si suona e si danza la beguine mentre nelle scuole di ballo la si ignora perché ufficialmente la beguine non esiste: non fa parte delle danze latino americane e non fa parte del ballo da sala, questo ballo un tempo famoso è caduto in disgrazia e bandito dai manuali e dalle scuole.

Nonostante ciò viene ballata moltissimo, le orchestre infatti la propongono costantemente durante le serate cogliendo ed interpretando i gusti e le inclinazioni del pubblico che l’apprezza per le sue doti di semplicità d’esecuzione, pacatezza, e possibilità di personalizzazione.

La  beguine è la rivisitazione in chiave moderata della rumba cubana; dopo il 1930 rumba e beguine fecero la loro apparizione nelle sale da ballo, in concorrenza fra di loro, differenziandosi come vivace la prima e moderata la seconda.

La rumba era nata come danza di corteggiamento: il ritmo era talmente veloce che il ballo consisteva in una successione rapida di movimenti del corpo e dei fianchi, l’azione dei piedi era ridotta e prevaleva la gestualità. Fu proprio la beguine, con l’attenuazione del ritmo, ad introdurre numerose figure sul posto e brevi camminate.

Ad oggi negli Stati Uniti  all’interno dei cinque balli Rythm di Stile Americano si è mantenuta la distinzione fra rumba lenta, definita Rumba-Bolero e ballata sui ritmi lenti tipici della Rumba che per noi appartiene alla disciplina Danze Latino Americane con 27/29 battute al minuto e la versione veloce, oltre le 30 battute, chiamata Rumba-Beguine.  In Italia rientra nella categoria del “Ballo Sociale”, ossia quel genere o stile di ballo generico adatto ai dancing.

La tecnica di base è semplice: si ballano i primi tre battiti effettuando una pausa sul quarto. Il peso del corpo cade di volta in volta sul piede che si muove e la pausa si effettua sul piede che ha eseguito il terzo passo, le gambe morbide ma non piegate, l’interpretazione è quella di un ballo naturale e scorrevole, al pari di una passeggiata.

E’ un tipico ballo da terza età in quanto non richiede grossi sforzi nei passi e nelle aperture, si può gestire con moderazione facendo una buona figura ed è un movimento salutare senza strappi o torsioni, consigliabile e praticabile  per non abbandonare la pratica del ballo anche quando le articolazioni non rispondono più tanto bene. Capita di vedere coppie di ottantenni muoversi lentamente e con soddisfazione lungo i lati della pista in modo molto più decoroso di giovani ruspanti disadatti.

Ogni volta che l’orchestra attacca una beguine i ballerini devono fare una scelta rischiosa esponendosi all’immancabile giudizio degli altri: ballare il pezzo con passi di fox,  di rumba o, appunto della tanto bistrattata beguine? Certe volte qualcuno tenta di ballare il ritmo con un jive lento lento fino a fermarsi per arenamento o con figure di salsa eseguite a due all’ora fino allo stallo completo. Può inoltre accadere che dopo i primi trenta secondi del brano ed i primi passi che non convincono, ci siano improvvisi rovesciamenti di fronte e chi ballava il jive passi al fox, chi ballava il fox passi alla rumba o viceversa con pentimenti poco convinti, finisce che si termina il pezzo senza essere persuasi del tutto di aver indovinato il ritmo giusto. Si salva chi ha iniziato e continua imperterrito con la beguine.

Quando l’orchestra suona una beguine io ballo la beguine e, certe volte, quando ho voglia di chiacchierare o di riposarmi, la ballo anche quando l’orchestra suona il fox.

Come tutti mi nuovo a modo mio: il quadrato come passo base e poche figure della rumba semplificate, e vado avanti con passetti non accentuati e finte e controfinte a scartare con la mia dama gli avversari in pista.

Il ritmo è accattivante, la sequenza semplice, da sgambatura. Si va come a passeggio sul corso e ci si intrattiene in conversazione con la donna o con i vicini di passo, si guarda il pubblico seduto e le cosce della cantante, si salutano gli amici in sala dandosi appuntamento a dopo, ci si gode il pezzo canticchiandolo e senza preoccupazione di sbagliare i movimenti, tanto vanno bene tutti.

E via andare.

ESEMPIO DI UN FIN TROPPO CORPOSO PROGRAMMA DI BEGUINE

  • base naturale  – quadrato
  • alemana dama su base naturale
  • hand to hand
  • cucarachas cavaliere in senso inverso rispetto alla dama
  • cross basic
  • base mambo
  • semigiri alternati
  • giri alternati 360°
  • presa delle mani ad otto (braccia incrociate):  alemana  e cambio parete
  • cambio parete:
  • con dama che passa a dx del cavaliere
  • con dama che passa a sx del cavaliere
  • impatto
  • spirale
  • arrotolamento dama + srotolamento
  • promenade in Shadow Position:
  • verticale
  • circolare
  • new york
  • spots turn
  • alemana dama senza lasciarle le mani:
  • presa incrociata dietro la schiena di lei
  • cambi parete
  • promenade lungo la linea di ballo

Spiegazione del quadrato:

Il quadrato rappresenta una forma semplice ed elegante di introduzione. I passi del cavaliere sono i seguenti (la dama esegue i movimenti contrari):

  1. sinistro di lato
  2. destro chiude
  3. sinistro avanti + pausa
  4. destro di lato all’altezza del sinistro
  5. sinistro chiude
  6. destro dietro (in posizione di inizio ballo) + pausa

Rocco e Rosa

Scarpe di cuoio numero cinquantanove con balaustra in vibram, alto due metri con peso forma di mille chili distribuiti tra muscoli e ossa di granito, di professione vivaista: Rocco.

Dolcissima, minuta e rotondetta, solare e profumata di pane appena sfornato, scarpette di vetro rosse e bianche, commessa di merceria: Rosa.

Una coppia giovane ed amabile, timida e riservata nella vita quotidiana che in sala  si trasforma per incanto in un corpo contundente, in una macchina bellica.

Talvolta mi è capitato di incontrarli allo Chalet dei Tigli o all’Arlecchino in serate di inverno noiose che loro trasformavano in eventi ricchi di suspence.

Sono buoni ballerini ma un poco irruenti ed energetici rispetto alla media dei frequentatori di quei locali di liscio, in genere pensionati e casalinghe rinvecchiate abituati ai brevi stacchetti di beguine o a mazurche da interpretare come una passeggiatina.

Rocco e Rosa fanno simpatia fino quando stanno seduti a scambiare convenevoli con tutti, ma quando scendono in pista si crea una certa tensione innaturale.

Quando Rocco attacca il valzer lento muove le leve piegando le ginocchia a novanta gradi con uno slancio pauroso e con falcate da mezzofondista tracciando un solco sul pavimento, Rosa gli viaggia appesa al collo, spalmata sul torace, con le gambette che squittiscono veloci in aria per recuperare il tempo giusto. La pista è una autostrada a otto corsie senza limiti di velocità e divieti di sorpasso, si muovono in più direzioni per volta e chi capita per distrazione sulla traettoria  viene sbalzato ai bordi della sala.

Gli altri ballerini si muovono circospetti e prudenti nel timore di rimediare una scarpata o una puntata di gomito nella schiena.

Quando ballano il fox veloce si forma un vuoto d’aria che risucchia il pubblico seduto troppo vicino al bordo ring.

Quando ballano la salsa lui si inceppa regolarmente sulla breve pausa che sta fra le sequenze di passi uno-due-tre e cinque-sei-sette, in attesa del quattro che non arriva mai perchè non c’è, allora lei lo rimette delicatamente in carreggiata con un dolce sguardo di perdono.

Quando ballano il cha cha cha con le aperture ed i New York volano schiaffi sugli astanti, una volta ne ha preso uno pure il sassofonista dell’orchestra che si era sporto troppo dal palco.

Quando ballano la rumba si guardano teneramente con torsioni del busto da strappo e pericolosi ondeggiamenti delle braccia.

Quando ballano il tango assumono le movenze di una trebbiatrice che solca lo spazio con battito di tacchi che fanno gemere la graniglia della pista.

Ma la cosa più bella è quando ballano la polka figurata con i giri a destra e a sinistra ed i saltelli: allora si crea l’effetto tsunami sul percorso: chi precede accelera furiosamente per non essere investito fino a mettersi a correre in tondo,  gli altri si addensano stretti stretti al centro della pista facendosi coraggio, lasciando  largo al turbine che tra smanacciate, scalciate e trottole travolge e spazza ciò che incontra come un trattore a vapore di mille cavalli.

Alla fine, ansimanti e trafelati, si guardano con occhi luminosi, sorridono e si

Proto

Dal greco “protos” primo, che sta innanzi a tutti; nelle parole composte ha il senso di primo ad esempio protocollo, protomedico ecc

Proto è uno dei miei amici di ballo.

E’ basso e tarchiato a fuoco dal lavoro di fabbrica, mani di corteccia e piedi piccoli, ha incorporate batterie di lunga durata a basso consumo fatte apposta per lui in fonderia che deve avere inserite tra le ascelle  e la schiena perché suda in continuazione e cambia tre magliette e due camicie per sera.

Quando balla  muove i piedi in tutte le direzioni, avanti, indietro, a lato, sopra e sotto, girando come ruote di locomotiva che sferragliano veloci sulla pista a tempo di qualunque musica si suoni.

Le braccia afferrano salde la ballerina di turno e la pilotano in una specie di rallye di giravolte arcuate e rotear di scimitarre. Ballare con esso è una corsa campestre ad ostacoli che stira le articolazioni principali e confonde tutte le teorie di ballo apprese con diligenza e fatica.

Quando balla sorride, parla e guarda il pubblico estasiato, è un bimbo che si diverte da matti ed è contagioso, trasmette allegria e cameratismo. Tutte si aspettano di ballare con lui e resterebbero delusissime se non venissero trascinate in pista, ma lui non trascura nessuna, nessuna donna resterà seduta o sola, nè lascerà che qualcuna si intristisca sulla sedia, tutte si sentiranno attraenti e interessanti.

E’ il jolly, l’asso nella manica del gruppo,  una garanzia di riuscita della festa.

Le balere dovrebbero ingaggiarlo per alzare il livello di divertimento generale delle donne e invece lui fa tutto questo gratis.

Quando manca alle serate si sente, siamo tutti un po’ più mosci, anche noi maschietti perché lui, nei momenti liberi tra una danza e l’altra, scherza e racconta barzellette e ci racconta i suoi guai, le sue soddisfazioni e la vita quotidiana con enfasi e passione.

La moglie è una placida, dolce e accondiscendente compagna che se lo gusta per tutta la settimana e lo scioglie in sala da ballo, a lei non piace moltissimo ballare, ma guarda volentieri gli altri farlo. Lui ringrazia ed entra in azione.

Non si può dire che balli male, anzi. Ha insegnato molti passettini a molte dame, ha ritmo, tempismo e conosce mille trucchi, diciamo che non è propriamente ortodosso nella esecuzione di quanto scritto sui libri

Proto e una persona viva e vitale, un compagnone e sopratutto un buon amico, insomma un protoballo da sballo.

Anniversario

Oggi è un anno esatto che ho iniziato a ballare!

Ho atteso questi giorni per aprire il mio blog di futili storie e riflessioni sui ballerini e sulle sale da ballo compiendo un passo che si è materializzato come inevitabile non più di due mesi fa quando ho constatato che non mi bastavano più le tre serate di ballo settimanale e che avevo bisogno di sfogare tutto l’arretrato che avevo dentro.

Così, terminato il lavoro, nelle sere in cui non avevamo allenamento,  ho cominciato a scrivere rapide storie legate al mondo delle balere, unendo la passione per la scrittura che avevo in gioventù con quella per la danza maturata in vecchiaia e trovando nel blog la forma più immediata e democratica di pubblicazione.

Il risultato potrà non piacere, ma intanto è importante mettere nero su bianco le sensazioni che provo guardando me stesso e gli altri interagire in quel microcosmo rappresentato dalla sala da ballo e poi nel variegato mondo dei frequentatori di balere forse altri sentono lo stesso bisogno di parlare, raccontare, ascoltare questo genere di storie.

Purtroppo i frequentatori di internet e di blog non appartengono generalmente alla medesima categoria dei frequentatori delle sale di liscio e pertanto potremmo non incontrarci mai.

 

 

Il Papillon Rosso

Questa è la storia di quel signore distinto di mezza età che potreste avere incontrato nella vostra sala preferita a ballare con partner sempre diverse, mai in atteggiamento confidenziale con alcuna di esse, mai seduto in allegra compagnia. Una figura che siete sicuri di aver già visto altre volte proprio lì, ma di cui vi sfuggono i riferimenti più precisi, il nome, la donna, gli amici e, forse,  verrà di chiedervi cosa lo spinge in sala, perchè dopo aver ballato con tutte, entra ed esce sempre da solo dal locale, cosa lo fa divertire, che cosa sta cercando. Vorrete insomma dargli un contenuto, una storia.

C’era un tempo in cui ogni mattina si svegliava allo stesso modo: volgendo il capo verso destra a cercare il profilo della schiena di lei. Lei dormiva sempre poggiata sul fianco destro con le gambe raccolte, le ginocchia sul petto ad occupare poco spazio, alla ricerca di calore e sicurezza, il braccio sinistro lungo il corpo, la testa poggiata su due piccoli cuscini.

Intravedeva nella penombra la curva della schiena non ancora abbronzata di inizio estate, i laccetti sottili della camicia da notte sulle spalle leggermente scoperte dal lenzuolo, i fianchi pieni, i capelli chiari rilasciati sul cuscino, l’ampio dorso alzarsi ed abbassarsi con il ritmo pigro del respiro notturno.

Si soffermava  a carpirne sulla pelle il leggero profumo della notte appena trascorsa,  aspirando con le narici dilatate ed i sensi già accesi, tentava di penetrare i pensieri che ne animavano gli ultimi sogni per forzarvi la sua presenza. Avrebbe voluto essere in quei sogni, avrebbe voluto essere parte del suo inconscio.

Aspettava così, immobile, per minuti, decine di minuti, quarti d’ora, accadeva infatti che lei si svegliasse sempre un poco più tardi con il trascorrere degli anni. Non osava toccarla, amava quello stato di sospensione in cui tutto appare ancora fumoso e indefinito, temeva la concretezza della realtà e ne ritardava il sopravvento.

Poi, finalmente, lei muoveva leggermente le spalle, allungava il braccio  per ritrovarlo con il tatto, aspettava ancora qualche istante e, infine, volgeva il viso verso di lui.

La rarefatta attesa terminava, si rompeva con l’ineluttabilità di una vaso prezioso che senti sfuggirti dalle mani e, incapace di fare niente per impedirlo, vedi scivolare e cadere a terra, e il giorno poteva iniziare ad esistere come entità di tempo reale.

Di fatto era avvenuto solo negli ultimi mesi che si svegliasse prima di lei, per tutti gli anni della loro vita in comune aveva dormito di un sonno pesante ed ignaro fino al limite delle possibilità concesse dal suono della sveglia, spesso era lei che lo destava con una tazza di caffè caldo ed amaro.

Quelle volte lui apriva gli occhi e incontrava il suo sguardo fisso con una espressione che non aveva mai saputo interpretare. Era come se lei lo esaminasse, scrutasse ogni dettaglio del viso, i pori, le rughe  e formulasse tra se piccole considerazioni segrete sul suo aspetto, o forse voleva solo captare i pensieri del primo risveglio o afferrare il primo dischiudersi degli occhi al giorno per cogliere l’attimo di sorpresa che ogni mattina si rinnovava in lui trovandosela davanti, così vicina. Forse era solo il suo desiderio di fondersi con il suo sonno, diventare il suo sonno, il suo oppio. Lei sapeva bene quanto da sempre gli piacesse dormire, come si sentisse a proprio agio nel sonno. Se fosse riuscita a entrarne a far parte era certa che lui si sarebbe sentito davvero completato.

Ecco, due anni dopo lui ancora si svegliava allo stesso modo, con gli stessi gesti anche se sapeva che girando la testa verso destra non avrebbe trovato  nulla e nessuno, solo il vuoto del letto e la parete della stanza vuota, un’altra vita.

Era come richiamare ogni volta dolore e amore, riprovare un brivido, un morso feroce al centro del petto che durava attimi, che ne proiettava furiosamente l’anima verso il bordo del letto, verso un orizzonte verticale senza fine, un precipizio profondo, una voragine aperta verso nulla che inghiottiva lo spirito nel vuoto e, improvvisa, si scioglieva non rilasciando che la consapevolezza della solitudine.

Il risveglio era la parte più difficile della giornata.

Quei minuti che intercorrevano tra l’ultimo sonno ed i piedi poggiati a terra a lato del letto erano la sua illusione e la sua pena, erano ciò che segnava la sua vita: era un uomo irrimediabilmente solo e, quel che è peggio, ne era consapevole.

Ambrogio era nato sessantadue anni prima in una cittadina di provincia, una vita vissuta da impiegato comunale, una carriera regolare, una vita tranquilla divisa con la moglie, ventisette anni di matrimonio senza pensieri, un bell’appartamento, niente figli né animali, e la passione del ballo liscio, scoperta in età matura e con lei condivisa.

Una sera di dieci anni prima,  trascinati da amici, erano entrati al Papillon Rosso, un circolo che era subentrato ad una vecchia casa del popolo di periferia, trasformata in pizzeria e sala da ballo. Dopo la pizza, cattiva, erano saliti al primo piano ed entrati nella sala da ballo: era stata come un’illuminazione.

Seguirono tre anni di scuola di ballo sempre al Papillon e poi innumerevoli sere del sabato passate nelle sale di tutta la regione a ballare in compagnia o da soli, una passione scoperta per caso che aveva caratterizzato la loro vita. Anni semplici e belli, vissuti con leggerezza, quieti e allegri, senza malattie o figli da sistemare in una sospensione temporale che magicamente li riportava indietro ai loro anni migliori.

Poi un dolore sconosciuto che nel giro di due settimane e in un crescendo silenzioso aveva impedito i movimenti veloci di lei, costringendola a rimanere seduta quando le altre coppie si lanciavano in pista, prima con i veloci jive, poi col cha cha, infine con qualunque danza e con qualunque ritmo.

Un mese e non aveva più la forza nemmeno di uscire la sera per andare al dancing con gli altri, un’altra settimana e dovette ricorrere al busto rigido per stare eretta in poltrona senza dolore, un’altra ancora e finalmente la diagnosi divenne certa e spietata.

Un sabato sera, in condizioni già compromesse, Ambrogio la convinse ad uscire con gli altri, andarono di nuovo al Papillon Rosso, riuscirono a danzare ancora con piccoli passi di beguine, lui la guidava con cura quasi sollevandola da terra per renderla più leggera, lei era tesa, combattuta tra la sofferenza e il desiderio di non lasciare quelle sensazioni per sempre. Erano i loro ultimi balli assieme e lo sapevano.

Quella che iniziò il giorno successivo fu l’ultima settimana per lei: morì in casa di mercoledì mattina quando in strada c’era il mercato della verdura e si poteva udire dalle finestre la voce degli ambulanti.

Da allora erano passati due anni, Ambrogio non si era rifatto una vita, anzi non si era ripreso proprio: trascorreva la giornate avvolto in una apatia struggente, commiserandosi e lasciandosi invecchiare.

Ma ogni sabato, qualunque stagione e con qualunque tempo, da solo, indossava i pantaloni neri, la camicia bianca con i gemelli e il gilet nero, infilava nella borsa le vecchie scarpe da sala lucide e si recava a ballare.

Nelle tre ore successive si trasformava: faceva da nave scuola per le ballerine principianti e il partner competente per quelle brave; signore e signorine di ogni età ballavano volentieri con lui, distinto e sensibile, un compagno non invadente e professionale che con gentilezza le accompagnava e le sosteneva premuroso nei loro sforzi, senza chiedere niente in cambio.

In quelle ore ballava di tutto, lenti e veloci, sorrideva di un sorriso garbato e un poco distante con galanteria, incoraggiava tutte e si inventava sempre un modo per complimentarsi con loro per i progressi o per la scioltezza, per la leggerezza o il senso del ritmo,  si inebriava della musica e del movimento coordinato dei passi dimenticandosi di sé, estraniandosi dalla propria realtà.

Era uno svago bellissimo, galleggiare in una dimensione astratta senza tempo e senza dolore, solo la concentrazione nel seguire il ritmo e l’armonia dei movimenti, uno due tre, giro a sinistra, quattro cinque sei, chassè, tre passi avanti, tacco, pianta, taccopianta, giro spin e via ancora per balli e canzoni, valzer e tanghi, mazurche rumbe e merengue, tutto il suonabile  e tutto il ballabile senza fermarsi, cambiando compagna ad ogni giro e ricominciando daccapo, tra giravolte e passi doppi, aperture e ampie falcate, un tourbillon di movimenti composti, inesauribile, sempre sorridente sempre educato, fino alla stanchezza totale che finalmente lo coglieva e lo restituiva spossato di ogni energia.

Quello era il tempo di salutare, tornare a casa e cominciare una nuova settimana.

Difficile definirlo divertimento era più una maratona contro la realtà e contro se stesso, lo sfogo che dava un piccolo motivo valido al suo sopravvivere.

L’unico locale dove non mise mai più piede fu il Papillon Rosso.