Io e Caterina

Ho conosciuto Caterina quando aveva cinquantadue anni ed era separata da cinque. Aveva un figlio che viveva all’estero, lavorava come ragioniera  all’ufficio delle imposte ed aveva una autonomia economica che le consentiva una vita agiata.

Era stata una bella ragazza in gioventù e di quella bellezza graziosa se ne trovavano le tracce in una maturità distinta e un po’ sofisticata. Minuta ed elegante, non faceva colpo al primo impatto, ma attirava per la gentilezza. Sembrava molto fragile.

Era affettivamente sola da cinque anni, ma anche prima del divorzio non è che fosse meno sola, conseguenza di una storia amorosa decisamente sbagliata, libera quindi e con un poco di nostalgia delle forti emozioni che portano con sé corteggiamento e innamoramento. Ma non era per quello che veniva in pista, piuttosto per confondersi nella folla, guardare  con un po’ di invidia e di nostalgia le coppie, cercare nei loro comportamenti e nei loro gesti i ricordi sfuggiti.

Io frequentavo l’Orchidea Blu ogni venerdì sera da molto tempo, era la sera del liscio, al sabato facevano discoteca e domenica era aperto solo il ristorante al primo piano.

Conoscevo  tutti gli avventori abituali, le coppie e i singoli, conoscevo i camerieri e le orchestre che passavano con regolarità, conoscevo il battito del cuore segreto del locale, i ritmi nascosti della cucina che a mezzanotte sfornava la pizza per gli avventori, il bar ed i piccoli vizi dei suoi clienti, i problemi di scarico del bagno degli uomini e la ferocia dell’impianto di riscaldamento.

Avevo inquadrato Caterina già la prima volta che era venuta, un venerdì sera di maggio a stagione di ballo quasi finita, con il caldo che si faceva sentire e muoversi in pista voleva dire sudare in abbondanza.

Era in compagnia di altre coppie i cui uomini la facevano ballare di tanto in tanto a turno, questo gesto di cortesia faceva notare ancora di più il suo stato di solitudine sentimentale.

Si disimpegnava con garbo regalando un poco di grazia ai movimenti randellati dei suoi occasionali ballerini che sbattevano qua e la ridendo e sbracciando, chi sguaiato come a rimestare polenta chi rigido come un quarto di bue appeso al gancio, sembravano capitati lì per caso.

Io feci la mia solita serata di balletti saltuari e distaccati guardandola spesso, lei credo che non mi notasse, ed era la situazione normale per me.

Tornò una volta a settembre alla ripresa della stagione invernale, abbronzata e con la stessa compagnia di ballerini disastrati: stavolta mi feci coraggio e la invitai a ballare con la consapevolezza del rifiuto.

Con mio stupore, dopo un’occhiata di intesa con gli amici, acconsentì e mi seguì in pista, l’orchestra attaccava uno slow fox che avevo ballato molte altre volte.

Lo Slow Fox ha un ritmo che deve essere sentito fino in fondo e vissuto con grande ispirazione, è un ballo molto delicato e impegnativo, basato sul perfetto equilibrio fra le pause dei lenti ed i passaggi leggeri dei doppi veloci, nelle sale da ballo viene ballato  più semplicemente come fox lento.

Con una certa timidezza, come a timore di sciuparla, era molto più bassa e più esile di me, la presi in posizione ed avviai una serie di prudenti passi, greche semplici e piccoli pivot, lei si mantenne rigida per i primi passi, stando discosta e quasi distratta senza guardarmi, come a capire che tipo di ballerino e uomo fossi, se c’era da fidarsi o meno dell’uno e dell’altro aspetto.

Ero partito con molta cautela scusandomi se non fossi stato all’altezza, falsa modestia perché avevo visto come ballavano i suoi amici e sapevo che non avrei fatto brutta figura. Lei sorrise dicendomi che non importava il come, bastava ballare, poi mano a mano che la melodia procedeva, senza parlare, presi ad accentuare la pressione sulla sua scapola sinistra facendole sentire la guida, iniziai ad allungare un poco i passi e a dare più ritmo, lei sembrava apprezzare e soprattutto, seguiva senza esitazione, a metà della canzone mi guardò stupita e mi disse sorpresa “Oddio! Finalmente si balla !”, rimasi impassibile e spinsi ancora un poco di più.

Seguirono in quel primo interminabile slow tutti i movimenti ed di trucchi che conoscevo, quando la invitai in un difficile passaggio che Caterina seguì istintivamente senza neppure sapere di cosa si trattasse capii che non l’avrei più mollata.,

Al termine del nostro primo ballo lei ansimava un poco per lo sforzo, ma era raggiante. Ballammo ancora quella sera, e poi ancora molte altre volte.

Così abbiamo imparato a conoscerci, sulla pista nelle volute e nelle rapide discese dei fox e dei valzer che prediligeva fra tutti gli altri balli e che io assecondavo con piacere. Non so in quale modo, ma riuscì a convincere gli amici a venire all’Orchidea per molti venerdì prima che si stancassero, poi da sola, finalmente, senza legami di orari e convenevoli.

Erano le nostre serate fatte di passi doppi, agili scivolate e giri,   eravamo perfetti, una coppia nelle due ore della sala, sconosciuti  nel resto della settimana, mai un appuntamento, mai una cena o qualcosa di più, con naturalezza il nostro affiatamento aveva dei ristrettissimi limiti di tempo e di luogo, e funzionava.

A fine serata bastava che uno dei due dicesse “ci vediamo venerdì ?” per aver combinato un appuntamento.

Così per una intera stagione ci ritrovammo nello stesso locale alla stessa ora a fare gli stessi gesti, non c’era bisogno di approfondire niente, ci trovavamo e basta. Si era creata una strana complicità fatta di fiducia al centro delle sala e indifferenza per il resto della quotidianità: era paradossale che riconoscessimo immediatamente i movimenti ed i sussulti dei nostri corpi e volutamente non sapessimo niente l’uno dell’altra, una solida amicizia tra quelle mura tra due estranei che davano un significato alla settimana, senza pretendere niente di più, senza nemmeno conoscere indirizzo o telefono l‘uno dell‘altra.

Poi venne l’estate e non facemmo niente per affrontarla: l’Orchidea Blu chiuse per le ferie, ci ritrovammo presi ognuno per conto proprio da altri eventi, il caldo, un po’ di problemi di salute, il mare. Saltarono i primi  venerdì di giugno, davamo per scontato che la musica avrebbe modellato il nostro destino per noi.

Così, tra vacanze e lavoro, passarono anche luglio ed agosto. A settembre dovetti assentarmi dalla città per affari alcune settimane ed arrivò di nuovo ottobre senza che ci fossimo più sentiti.

Era per me naturale tornare all’Orchidea Blu il venerdì sera e ritrovarla al solito tavolo, era un impegno al quale avevo pensato spesso durante quei lunghi mesi di lontananza da lei e dal ballo, ma non accadde né quella volta né mai più.

Non so che fine abbia fatto Caterina nella grande città e non ho fatto niente per ritrovarla se non continuare ogni venerdì ad entrare all’Orchidea Blu con la speranza di vederla. E’ andata così che ci siamo perduti.

Ma tante notti prima di dormire penso a Caterina, la immagino mentre balla arrendevole seguendomi senza esitazione nei giri repentini del valzer, nei passi incrociati e rapidi del cha cha cha, nelle ampie volute della rumba o, come la prima volta, in un morbido slow fox: è la mia compagna segreta.

E’ vestita da sera, abito lungo rosa, certe volte fucsia, altre arancio, scarpe da ballo dorate, capelli raccolti sulla nuca, trucco profondo, adagiata sul mio avambraccio destro, il capo reclinato, sorride ad occhi socchiusi, forse sogna.

E’ più giovane e bella, forse nemmeno è lei o forse è la sua idealizzazione.

E’ un buon pensiero che mi conforta e mi fa addormentare tranquillo senza pensare agli anni che passano e ai dolori della schiena che rendono sempre più faticosi i risvegli: quelle notti non ho i pensieri cupi del buio, immagino come avrebbe potuto essere diversa la mia vita. E’ una malinconia dolce che a volte mi commuove, vita un po’ sprecata ed un po’ vuota, una possibilità di amore profondo mai compiuta, un salto mai fatto.

Il fatto che lei esista tuttavia mi rincuora, due percorsi diversi e lontani che un giorno si sono sfiorati e, almeno per quelle sere, almeno per il ballo si sono uniti in una armonia provvisoria e solida, legata solo a quei luoghi a quelle musiche e che tuttavia  mi fanno sentire meno solo..

Il sonno sopravviene leggero a ritmo di valzer lento, uno due tre, uno due tre, uno due tre, forse nonostante tutto raggiungere la serenità è possibile, grazie Caterina.

S.A.M.B.A.

L’Associazione di Mutuo Soccorso Ballo Amico in acronimo A.M.S.B.A., meglio conosciuta con il più simpatico e ammiccante S.A.M.B.A., è una associazione di volontariato senza fine di lucro, nata con lo scopo di aiutare il prossimo che si trova in difficoltà esistenziali, proprio come la Croce Rossa, la Misericordia o Amnesty International.

Diciamo subito che opera con un profilo più basso e con finalità molto più semplici: sollevare dalle ambasce i ballerini soli o frustrati da delusioni cocenti, prima che compiano qualche gesto inconsulto e irreparabile, tipo smettere di andare e ballare.

Per questo fra i finanziatori occulti del S.A.M.B.A ci sono anche locali notturni e dancing che, se da un lato generano lo scoramento e le difficoltà de soggetti più deboli  con la dura legge delle balera, dall’altro cercano di porvi rimedio temendo di perdere una buona fetta di mercato, quella degli sfigati.

Tutto è nato un paio di anni or sono nella nostra ridente cittadina, grazie all’incontro occasionale e fortunato tra un’aspirante ballerina con disponibilità economiche e pochi ammiratori ed un vecchio avanzo di balera sul punto di andare in disarmo.

Lei è Petronilla Dehò, della quale parliamo in un’altra storia, lui è Ivano Libanore,  giramondo in pensione con tanto tempo libero, scapolo impenitente e sincero ammiratore di tutto il genere femminile.

L’incontro del tutto fortuito tra i due avvenne nel noto locale Baiadera nella ex zona industriale ora trasformata in area a rivalutazione ambientale, come dire che non c’è nulla.

Petronilla, al termine di una ennesima serata trascorsa in attesa di qualche disperato che la facesse ballare, incrociò lo sguardo compassionevole di Ivano, noto tombeur de bal, cacciatore di balle, che, impietosito, la coinvolse in una serie di ballabili ritmati composta da due fox trot, una viennese e una beguine, una sequenza che avrebbe distrutto qualunque ballerino della domenica, ma che per Ivano era semplice routine.

Lui infatti era nato dall’unione instabile tra una madre entreneuse ed un padre puttaniere ed era stato svezzato in balera, aveva frequentato locali di tutti i generi dall’età di quattro anni e sapeva ballare tutto quanto, ma veramente tutto, anche il rumore del passaggio del treno o il suono delle campane a festa della domenica. Ora aveva sessantacinque anni, una esperienza enorme e poca voglia di mettersi in gioco; vivacchiava navigando tra locali e localini a guardare gli altri, sparare giudizi e votazioni ai ballerini e spargere pillole di saggezza che nessuno stava a d ascoltare.

L’incontro tra i due si trasformò in una piacevole chiacchierata perché erano tipi di ampie vedute e basso profilo, e non viceversa, e parlando del più e parlando del meno Petronilla fece cenno alla sua difficoltà nel reperire materiale umano che la facesse ballare.

Ivano era chiaramente un esperto in materia e, trattandola con  dolcezza come una figlioccia, le spiegò le leggi immutabili della seduzione, che poi  sono quelle applicate inconsapevolmente in balera.

I due si dettero appuntamento alla settimana successiva per un altro giro di balli amichevoli, e così via, mentre nella testolina mora di Petronilla, testolina sveglia allenata a sogni e congetture, si stava affacciando un’idea bislacca: quella di fare incontrare cuori solitari non per far nascere amori, era troppo pudica per pensare a queste cose,  ma semplicemente per fare quattro salti in padella, volevo dire in pista.

Ivano si mostrò interessato assai dell’idea, era un modo per sentirsi ancora impegnato in qualcosa di utile, e fu così che si buttarono entusiasticamente nel progetto.

Così per caso e per amore del prossimo, nacque questa società che Petronilla organizzò subito con poche regole ferree: solo volontariato, niente sesso,  non più di un appuntamento, e, soprattutto, niente furbacchioni.

Per far capire lo spirito che anima l’associazione riporto la locandina  del S.A.M.B.A. come appare sulle pagine del quotidiano locale e sui volantini appesi nei bar e alla stazione dei pullman.

“Hai serate libere ? Sai  mettere insieme quattro passi di mazurca o un semplice giro a destra di valzer ? Sei sufficientemente educato e gentile  da sostenere una conversazione per un paio d’ore con un occasionale compagno di ballo che potrebbe rivelarsi non particolarmente fascinoso ? Vuoi renderti utile al prossimo in modo non convenzionale senza avere a che fare, iddio ce ne scampi,  con poveri, ammalati o, peggio ancora, immigrati non regolarizzati ?

Il S.A.M.B.A. fa per te.

Il nostro motto è  – Buttati subito in pista ! C‘è qualcuno che ti aspetta”

La regola del S.A.M.B.A. è intervenire con soluzioni mirate e immediate caso per caso, senza favorire nascite di relazioni, né sfruttamento di alcun genere.

Una specie di banca del ballo dove al bisogno ci si rivolge per avere dritte su come muoversi, dove andare a cercare compagnia danzante, come risolvere problemini di alitosi o di compresenza con il prossimo.

Ad ogni bisogno una risposta su misura, dice Petronilla, e Ivano, che ne ha viste di cotte di crude, fruga nella memoria e trova una strada per indirizzare il problema verso una soluzione.

Così ha iniziato facendo lo sparring partner per signore non accoppiate che si sentivano non desiderate, proprio come Petronilla. E’ bastato un mese di intense frequentazioni di balere e dancing con Ivano che faceva ballare tutte le donne sole e spiegava le regole del S.A.M.B.A. per far decollare l‘associazione.

Tre o quattro femmine entusiaste si sono subito offerte come volontarie per ricambiare il servizio a maschi solitari e depressi, alcuni dei quali a loro volta hanno aderito e, con coraggio e la scusa del volontariato, hanno ampliato il giro degli assistiti,  così il giro si è allargato a macchia d’olio e a chiazza di leopardo.

Certo all‘inizio ci sono state delle incomprensioni:  una delle volontarie, un vero  cesso,  sfruttava la propria posizione di socia del S.A.M.B.A. per invitare a ballare uomini  tranquillamente seduti al loro posto, che appena squadrata scappavano a gambe levate, questa pubblicità negativa è stata rimediata togliendo la poverina dalla pista e assegnandole mansioni di centralinista.

Un paio di  volontari maschi troppo furbi hanno tentato di agganciare donne sole con promesse di gite premio o impiego part time nel S.A.M.B.A. e sono stati radiati con ignominia.

Si è poi scoperto che un certo Anselmo  spacciandosi per socio S.A.M.B.A. chiedeva cinque euro a polka ad una sciagurata dislessica che nessuno faceva ballare per paura di avere  pestati i piedi.

Ma si sa, sono i prezzi da pagare nelle aziende giovani che devono trovare un assestamento nel mercato.

Oggi il S.A.M.B.A. conta ottantasei iscritti sparsi nelle sale da ballo della provincia e undici volontari, sei donne e cinque uomini, che si prestano a interventi di ogni genere in materia di ballo: dal ripasso delle figure del tango a serate a tema, da animazione di feste in casa, a cure di casi particolari, sempre una sola volta per cliente e sempre sopratutto gratis e col sorriso sulle labbra.

Ivano non fa più molte serate, adesso  fa il maestro di  vita con gli altri volontari maschi e insegna mossette e galanterie da sala. Se ne sta parecchio tempo in ufficio a leggere la posta del cuore dei tanti clienti e ad ideare nuovi metodi di seduzione da applicare ai suoi casi.

Petronilla è la fondatrice, la presidente e l’anima del S.A.M.B.A., non lavora più nell’azienda di water closed del padre, ora  è presa  a tempo pieno dalla sua associazione grazie alla quale si sente realizzata e finalmente dentro al suo mondo.

Adesso non aspetta più che qualcuno le chieda di ballare: il sabato sera si taboga da donna fatale, tutta truccata e agghindata,  e va  nelle sale a reclutare volontari. Del resto il lavoro è lavoro !

I miei maestri

I miei maestri di ballo sono alti, giovani e belli; sono bravi, gareggiano nella classe A delle danze standard e fanno una gran bella figura. Noi allievi siamo fieri di loro.

Lei è gentile e comprensiva, lui un poco introverso e suscettibile, lei stimola con l’incoraggiamento, lui con l’analisi critica, insieme si completano e formano un team che attira molti allievi, fatto che talvolta li mette un po’ in crisi nella difficile gestione della sala sovraffollata.

A loro volta hanno i propri maestri, potremmo definirli i maestri al quadrato, che sono ancora più bravi, più belli e più giovani e che noi non vediamo quasi mai ma esistono realmente. Anche i loro maestri sono fieri di loro perché i loro corsi sono strapieni a differenza di altre scuole.

Una volta l’anno i maestri dei maestri vengono  a farci una lezione collettiva che a me sembra quasi uguale a quelle che riceviamo settimanalmente. Solo chi fa le competizioni prende lezioni private da loro pagando una certa cifra che non dico per rispettare la normativa sulla privacy.

Presumo che esista anche la categoria dei maestri al cubo, ovvero i maestri dei maestri dei maestri, che sicuramente vivranno in un diverso spazio-tempo, avranno piedi alati e faranno lezione solo a pochi eletti o a figli di emiri.

Ho conosciuto i miei maestri un giovedì sera di marzo, a seguito di un incontro fortuito, e fortunato. Mia moglie ed io avevamo riposto da anni le velleità di apprendere a ballare, delusi da brevi esperienze con insegnanti tristi o presuntuosi e fiacche compagnie di allievi, quel giovedì sera, quindi,  andammo non troppo convinti, anche perché uscire dopo una giornata di lavoro non rientrava nei nostri programmi.

Ebbene da quel giovedì non abbiamo perso una lezione, anzi facciamo pure degli allenamenti extra ed il sabato è diventato per noi il giorno dell’uscita in balera.

Contro ogni previsione Il ballo ha acquistato una posizione rilevante nella nostra vita e di ciò siamo felici.

I miei maestri si chiamano Fabio e Katia ed io devo loro riconoscenza perché ci hanno dischiuso una porta e guidati per mano verso una strada bellissima della quale, fortunatamente, non vedo la fine.

I miei maestri pesano trenta chili in due, sono esili e agili come figurini in controluce. Li ho visti ballare in esibizione: lei con un gran vestito bianco con paillettes e piume ed uno scollo vertiginoso sulla schiena e i capelli biondi raccolti in una crocchia con un fermaglio dorato, lui in completo nero e scarpe lucide. Sembrano finti ed invece si muovono a grandi passi e salti attraversando la pista fra un baleno ed un fruscìo.

Mi piace quando si accostano in velocità agli spettatori  seduti in poltrona quasi a sfiorarli e li evitano con un giro improvviso ed uno scarto della testa, è come assistere al passaggio della mille miglia a bordo strada e provare l’ebbrezza della velocità senza muoversi dal proprio posto.

E’ un videogioco dal vero, loro corrono e faticano e noi tratteniamo il respiro.

Per usare una metafora evangelica si potrebbe dire che quando ballano Fabio e Katia camminano sulle acque senza bagnare le scarpe  mentre noi portiamo alle caviglie piombi da cento chili che ci tengono immersi fino al collo e stiamo a galla solo grazie a loro che ci tengono su con un dito sotto il mento.

Katia è stracarina e stragentile con tutti, è una specie di sorella-amica-mamma che, a differenza di tutti noi, sa ballare come cristo comanda. Certe volte acchiappa un uomo del corso e fa qualche passo con lui, è capitato anche a me.

Beh, quelle volte uno si chiede perché insistiamo ad andare a scuola di ballo con la propria moglie tanto non ne caveremo un ragno dal buco, e mica solo per colpa della moglie.

Poi però fa un piccolo cenno della testa come per dire “va bene così” e si riparte con rinnovato entusiasmo.

Come ogni maestro di ballo che si rispetti, Fabio è fissato con la postura, e continua a sollevarci  gomiti e braccia ed a piegarci la testa di lato imperterrito, visto che dopo due passi ributtiamo mollemente giù tutto l’armamentario e ci guardiamo i piedi.

Ogni due brani ferma la musica, ci raccoglie a centrocampo, cammina verso il centro tutto serio e ci dà una strigliatina.

In genere attacca con la frase “Due cose: …….….”  e poi dice due cose che non vanno bene nella postura o nei passi o in qualcos’altro.

Sono sempre due cose sole, ma due cose per volta, per le innumerevoli volte in cui ferma la musica per più lezioni a settimana portano a tre o quattrocento cose al mese che non vanno.

Il che ci rende alquanto depressi.

Certe volte mi pare che sto ballando proprio bene, mi sento ispirato, magari sento che la mia dama mi segue, mi pare di avere indosso il frac e di trovarmi a Blackpool, quando sento la voce di Fabio: “Gianfranco stai su con i gomiti ! Gianfranco la testa !  Gianfranco allunga il passo !” certe volte, essendo io un pochino sordo, sento solo “Gianfranco..……..” e perdo la frase successiva, ma tanto so che c’è sicuramente qualcosa che non va e cerco repentinamente di rimettere a posto tutto: gomiti, testa, spalle, bacino e piedi.

Mi duole dire che purtroppo ha pure ragione e che sono molto, troppo lontano dal frac e da Blackpool e molto, ma molto vicino alla pista granigliata della casa del popolo di Candeglia.

Noi tutti aspettiamo a gloria la volta che verrà da uno di noi e dirà “Bravo hai ballato bene”.  Quella sera, da bere per tutti.

Rocco e Rosa

Scarpe di cuoio numero cinquantanove con balaustra in vibram, alto due metri con peso forma di mille chili distribuiti tra muscoli e ossa di granito, di professione vivaista: Rocco.

Dolcissima, minuta e rotondetta, solare e profumata di pane appena sfornato, scarpette di vetro rosse e bianche, commessa di merceria: Rosa.

Una coppia giovane ed amabile, timida e riservata nella vita quotidiana che in sala  si trasforma per incanto in un corpo contundente, in una macchina bellica.

Talvolta mi è capitato di incontrarli allo Chalet dei Tigli o all’Arlecchino in serate di inverno noiose che loro trasformavano in eventi ricchi di suspence.

Sono buoni ballerini ma un poco irruenti ed energetici rispetto alla media dei frequentatori di quei locali di liscio, in genere pensionati e casalinghe rinvecchiate abituati ai brevi stacchetti di beguine o a mazurche da interpretare come una passeggiatina.

Rocco e Rosa fanno simpatia fino quando stanno seduti a scambiare convenevoli con tutti, ma quando scendono in pista si crea una certa tensione innaturale.

Quando Rocco attacca il valzer lento muove le leve piegando le ginocchia a novanta gradi con uno slancio pauroso e con falcate da mezzofondista tracciando un solco sul pavimento, Rosa gli viaggia appesa al collo, spalmata sul torace, con le gambette che squittiscono veloci in aria per recuperare il tempo giusto. La pista è una autostrada a otto corsie senza limiti di velocità e divieti di sorpasso, si muovono in più direzioni per volta e chi capita per distrazione sulla traettoria  viene sbalzato ai bordi della sala.

Gli altri ballerini si muovono circospetti e prudenti nel timore di rimediare una scarpata o una puntata di gomito nella schiena.

Quando ballano il fox veloce si forma un vuoto d’aria che risucchia il pubblico seduto troppo vicino al bordo ring.

Quando ballano la salsa lui si inceppa regolarmente sulla breve pausa che sta fra le sequenze di passi uno-due-tre e cinque-sei-sette, in attesa del quattro che non arriva mai perchè non c’è, allora lei lo rimette delicatamente in carreggiata con un dolce sguardo di perdono.

Quando ballano il cha cha cha con le aperture ed i New York volano schiaffi sugli astanti, una volta ne ha preso uno pure il sassofonista dell’orchestra che si era sporto troppo dal palco.

Quando ballano la rumba si guardano teneramente con torsioni del busto da strappo e pericolosi ondeggiamenti delle braccia.

Quando ballano il tango assumono le movenze di una trebbiatrice che solca lo spazio con battito di tacchi che fanno gemere la graniglia della pista.

Ma la cosa più bella è quando ballano la polka figurata con i giri a destra e a sinistra ed i saltelli: allora si crea l’effetto tsunami sul percorso: chi precede accelera furiosamente per non essere investito fino a mettersi a correre in tondo,  gli altri si addensano stretti stretti al centro della pista facendosi coraggio, lasciando  largo al turbine che tra smanacciate, scalciate e trottole travolge e spazza ciò che incontra come un trattore a vapore di mille cavalli.

Alla fine, ansimanti e trafelati, si guardano con occhi luminosi, sorridono e si