Io e Caterina

Ho conosciuto Caterina quando aveva cinquantadue anni ed era separata da cinque. Aveva un figlio che viveva all’estero, lavorava come ragioniera  all’ufficio delle imposte ed aveva una autonomia economica che le consentiva una vita agiata.

Era stata una bella ragazza in gioventù e di quella bellezza graziosa se ne trovavano le tracce in una maturità distinta e un po’ sofisticata. Minuta ed elegante, non faceva colpo al primo impatto, ma attirava per la gentilezza. Sembrava molto fragile.

Era affettivamente sola da cinque anni, ma anche prima del divorzio non è che fosse meno sola, conseguenza di una storia amorosa decisamente sbagliata, libera quindi e con un poco di nostalgia delle forti emozioni che portano con sé corteggiamento e innamoramento. Ma non era per quello che veniva in pista, piuttosto per confondersi nella folla, guardare  con un po’ di invidia e di nostalgia le coppie, cercare nei loro comportamenti e nei loro gesti i ricordi sfuggiti.

Io frequentavo l’Orchidea Blu ogni venerdì sera da molto tempo, era la sera del liscio, al sabato facevano discoteca e domenica era aperto solo il ristorante al primo piano.

Conoscevo  tutti gli avventori abituali, le coppie e i singoli, conoscevo i camerieri e le orchestre che passavano con regolarità, conoscevo il battito del cuore segreto del locale, i ritmi nascosti della cucina che a mezzanotte sfornava la pizza per gli avventori, il bar ed i piccoli vizi dei suoi clienti, i problemi di scarico del bagno degli uomini e la ferocia dell’impianto di riscaldamento.

Avevo inquadrato Caterina già la prima volta che era venuta, un venerdì sera di maggio a stagione di ballo quasi finita, con il caldo che si faceva sentire e muoversi in pista voleva dire sudare in abbondanza.

Era in compagnia di altre coppie i cui uomini la facevano ballare di tanto in tanto a turno, questo gesto di cortesia faceva notare ancora di più il suo stato di solitudine sentimentale.

Si disimpegnava con garbo regalando un poco di grazia ai movimenti randellati dei suoi occasionali ballerini che sbattevano qua e la ridendo e sbracciando, chi sguaiato come a rimestare polenta chi rigido come un quarto di bue appeso al gancio, sembravano capitati lì per caso.

Io feci la mia solita serata di balletti saltuari e distaccati guardandola spesso, lei credo che non mi notasse, ed era la situazione normale per me.

Tornò una volta a settembre alla ripresa della stagione invernale, abbronzata e con la stessa compagnia di ballerini disastrati: stavolta mi feci coraggio e la invitai a ballare con la consapevolezza del rifiuto.

Con mio stupore, dopo un’occhiata di intesa con gli amici, acconsentì e mi seguì in pista, l’orchestra attaccava uno slow fox che avevo ballato molte altre volte.

Lo Slow Fox ha un ritmo che deve essere sentito fino in fondo e vissuto con grande ispirazione, è un ballo molto delicato e impegnativo, basato sul perfetto equilibrio fra le pause dei lenti ed i passaggi leggeri dei doppi veloci, nelle sale da ballo viene ballato  più semplicemente come fox lento.

Con una certa timidezza, come a timore di sciuparla, era molto più bassa e più esile di me, la presi in posizione ed avviai una serie di prudenti passi, greche semplici e piccoli pivot, lei si mantenne rigida per i primi passi, stando discosta e quasi distratta senza guardarmi, come a capire che tipo di ballerino e uomo fossi, se c’era da fidarsi o meno dell’uno e dell’altro aspetto.

Ero partito con molta cautela scusandomi se non fossi stato all’altezza, falsa modestia perché avevo visto come ballavano i suoi amici e sapevo che non avrei fatto brutta figura. Lei sorrise dicendomi che non importava il come, bastava ballare, poi mano a mano che la melodia procedeva, senza parlare, presi ad accentuare la pressione sulla sua scapola sinistra facendole sentire la guida, iniziai ad allungare un poco i passi e a dare più ritmo, lei sembrava apprezzare e soprattutto, seguiva senza esitazione, a metà della canzone mi guardò stupita e mi disse sorpresa “Oddio! Finalmente si balla !”, rimasi impassibile e spinsi ancora un poco di più.

Seguirono in quel primo interminabile slow tutti i movimenti ed di trucchi che conoscevo, quando la invitai in un difficile passaggio che Caterina seguì istintivamente senza neppure sapere di cosa si trattasse capii che non l’avrei più mollata.,

Al termine del nostro primo ballo lei ansimava un poco per lo sforzo, ma era raggiante. Ballammo ancora quella sera, e poi ancora molte altre volte.

Così abbiamo imparato a conoscerci, sulla pista nelle volute e nelle rapide discese dei fox e dei valzer che prediligeva fra tutti gli altri balli e che io assecondavo con piacere. Non so in quale modo, ma riuscì a convincere gli amici a venire all’Orchidea per molti venerdì prima che si stancassero, poi da sola, finalmente, senza legami di orari e convenevoli.

Erano le nostre serate fatte di passi doppi, agili scivolate e giri,   eravamo perfetti, una coppia nelle due ore della sala, sconosciuti  nel resto della settimana, mai un appuntamento, mai una cena o qualcosa di più, con naturalezza il nostro affiatamento aveva dei ristrettissimi limiti di tempo e di luogo, e funzionava.

A fine serata bastava che uno dei due dicesse “ci vediamo venerdì ?” per aver combinato un appuntamento.

Così per una intera stagione ci ritrovammo nello stesso locale alla stessa ora a fare gli stessi gesti, non c’era bisogno di approfondire niente, ci trovavamo e basta. Si era creata una strana complicità fatta di fiducia al centro delle sala e indifferenza per il resto della quotidianità: era paradossale che riconoscessimo immediatamente i movimenti ed i sussulti dei nostri corpi e volutamente non sapessimo niente l’uno dell’altra, una solida amicizia tra quelle mura tra due estranei che davano un significato alla settimana, senza pretendere niente di più, senza nemmeno conoscere indirizzo o telefono l‘uno dell‘altra.

Poi venne l’estate e non facemmo niente per affrontarla: l’Orchidea Blu chiuse per le ferie, ci ritrovammo presi ognuno per conto proprio da altri eventi, il caldo, un po’ di problemi di salute, il mare. Saltarono i primi  venerdì di giugno, davamo per scontato che la musica avrebbe modellato il nostro destino per noi.

Così, tra vacanze e lavoro, passarono anche luglio ed agosto. A settembre dovetti assentarmi dalla città per affari alcune settimane ed arrivò di nuovo ottobre senza che ci fossimo più sentiti.

Era per me naturale tornare all’Orchidea Blu il venerdì sera e ritrovarla al solito tavolo, era un impegno al quale avevo pensato spesso durante quei lunghi mesi di lontananza da lei e dal ballo, ma non accadde né quella volta né mai più.

Non so che fine abbia fatto Caterina nella grande città e non ho fatto niente per ritrovarla se non continuare ogni venerdì ad entrare all’Orchidea Blu con la speranza di vederla. E’ andata così che ci siamo perduti.

Ma tante notti prima di dormire penso a Caterina, la immagino mentre balla arrendevole seguendomi senza esitazione nei giri repentini del valzer, nei passi incrociati e rapidi del cha cha cha, nelle ampie volute della rumba o, come la prima volta, in un morbido slow fox: è la mia compagna segreta.

E’ vestita da sera, abito lungo rosa, certe volte fucsia, altre arancio, scarpe da ballo dorate, capelli raccolti sulla nuca, trucco profondo, adagiata sul mio avambraccio destro, il capo reclinato, sorride ad occhi socchiusi, forse sogna.

E’ più giovane e bella, forse nemmeno è lei o forse è la sua idealizzazione.

E’ un buon pensiero che mi conforta e mi fa addormentare tranquillo senza pensare agli anni che passano e ai dolori della schiena che rendono sempre più faticosi i risvegli: quelle notti non ho i pensieri cupi del buio, immagino come avrebbe potuto essere diversa la mia vita. E’ una malinconia dolce che a volte mi commuove, vita un po’ sprecata ed un po’ vuota, una possibilità di amore profondo mai compiuta, un salto mai fatto.

Il fatto che lei esista tuttavia mi rincuora, due percorsi diversi e lontani che un giorno si sono sfiorati e, almeno per quelle sere, almeno per il ballo si sono uniti in una armonia provvisoria e solida, legata solo a quei luoghi a quelle musiche e che tuttavia  mi fanno sentire meno solo..

Il sonno sopravviene leggero a ritmo di valzer lento, uno due tre, uno due tre, uno due tre, forse nonostante tutto raggiungere la serenità è possibile, grazie Caterina.

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