Capita talvolta che un brano musicale si nasconda tra le pieghe della memoria salvo poi, senza alcun preavviso, affacciarsi improvvisamente mentre si passeggia o si fa la doccia.
Così ci troviamo a canterellare una trama della quale magari non si conoscono il titolo né le parole, una melodia imperfetta che viene evocata e della quale poi, con una frivola curiosità, dobbiamo per forza saperne di più.
A me è successo con “Non potho reposare”.
Il primo incontro, è stato quando ho dovuto ballarci sopra un valzer lento ed è stato incontro doloroso perché proprio non c’era verso di far coincidere i passi col ritmo, troppo difficile ai tentativi superficiali, oltretutto non capivo niente del testo e della voce, così ero quasi indispettito sebbene attratto dal brano.
La seconda scoperta è stata quando, ascolta e riascolta, balla e riballa, mi è venuta la voglia di conoscere meglio il personaggio di Andrea Parodi che quel pezzo cantava e aveva portato al successo e che, confesso la mia ignoranza, prima di allora non conoscevo.
Il terzo livello di conoscenza è stato il testo: tre strofe in dialetto sardo che mi hanno spinto a ricercarne l’origine: era evidente che non si trattasse di una semplice canzonetta e che nascondessero qualcosa di più
Così, piano piano, è emersa “A Diosa”, la poesia originale e la sua storia, e così è nato il desiderio di farla conoscere a coloro che, come me, non ne sapevano niente, quasi un modesto omaggio all’autore, al cantante, alla musica e alla Sardegna.
La canzone nasce dalla poesia “A Diosa”, il cui significato dovrebbe essere dea, divina o qualcosa del genere, scritta nel 1915 da Salvatore Sini detto “Badore” originario di Sarule in Barbagia, pastore come tanti altri ragazzi dell’epoca, poi poeta e infine avvocato.
Intorno agli anni venti il nostro Badore, che nel frattempo per tirare avanti si faceva onore nei tribunali, continuava imperterrito a scrivere drammi e testi di canzoni in quel di Nuoro, già allora definita l’“Atene Sarda”. E’ in quel periodo che ebbe inizio una stretta collaborazione col maestro Giuseppe Rachel, che di mestiere faceva l’impiegato nella pubblica amministrazione, ma che soprattutto era il direttore della banda di Nuoro il “Corpo musicale filarmonico”.
Nel 1921 Rachel, forse riprendendo una vecchia aria da lui stesso composta precedentemente, pensò bene di mettere in musica tre strofe della versione originale della poesia del suo compare e così stese una composizione per tenore e pianoforte con il tempo di mazurka, ritmo che richiama le feste paesane e lo spirito popolare. Così nasce la canzone “Non potho reposare” che prende il titolo del primo verso della poesia e che intraprende da quel momento una propria strada autonoma.
Da qui in poi non succede niente fino al 1936, anno della prima isolata incisione delle tre strofe da parte del tenore Maurizio Carta. Poi ancora oblio, la canzone viene presumibilmente eseguita dalla sola corale di Nuoro.
Soltanto dopo altri trenta lunghi anni, nel 1966, il Coro Barbagia di Nuoro incide un long playing intitolato “Sardegna, canta e prega“, dove il primo brano proposto è proprio “Non potho reposare”, e proprio nello stesso anno, neanche a farlo apposta, anche il Coro di Nuoro, registra la raccolta “La Sardegna nel canto e nella danza“, dove ugualmente troviamo il nostro brano. Si vede che tutto d’un botto si erano tutti svegliati !
E’ grazie a queste incisioni che il brano esce da Nuoro e dalla Barbagia e inizia a riscuotere un successo crescente. Da questo momento, infatti, si trasforma in valzer lento e si diffonde conquistando i cuori di tutti, sardi e non. Ci penseranno altri nuovi interpreti a contribuire alla sua completa affermazione: le corali Cànepa e Vivaldi di Sassari, Maria Carta, Elena Ledda, i Tazenda, I Bertas, Andrea Parodi, I Cordas e Cannas e poi Gianna Nannini e Mario Carta e ancora molti altri gruppi e solisti.
A me piace la versione intima e essenziale di Andrea Parodi e Al di Meola. Quella oramai notissima dello stesso Parodi con i Tazenda è un valzer ballabile come ho detto un pochetto difficile e perciò affascinante.
La poesia è una dichiarazione di amore appassionato e spirituale, la canzone ne coglie le forti strofe introduttive culminando con un inciso e ripetuto “t’amo”, del tutto eccezionale per il contesto in quanto fino ad allora mai si era parlato apertamente di amore in una canzone in dialetto sardo, per tradizione terra di pudore e ritegno. Meraviglia delle meraviglie in questo brano l’invocazione “ti amo” si ripete con forza per ben tre volte.
E’ una serenata piena di spiritualità e tenerezza senza tempo né confini ancora viva dopo quasi cento anni.
A titolo informativo Badore Sini scrisse anche la risposta poetica indirizzata dalla donna all’uomo e la intitolò, guarda un po’, “A Diosu” , ma questa ve la risparmio anche perché nessuno ne ha tratto una bella canzone e quindi non ci capiterà mai di ballarla.
E adesso gustiamoci la poesia originale e la sua traduzione in lingua italiana.
A Diosa
Salvatore Francesco Sini (1873-1954)
Non potho reposare amore, coro,
pessande a tie soe donzi momentu;
no istes in tristura, prenda e’oro,
nè in dispiaghere o pessamentu.
T’assicuro ch’a tie solu bramo,
ca t’amo forte, t’amo, t’amo, t’amo.
Amore meu, prenda d’istimare,
s’affettu meu a tie solu est dau.
S’are giuttu sas alas a bolare
milli vortas a s’ora ippo volau,
pro venner nessi pro ti saludare,
s’atera cosa nono a t’abbisare.
Si m’esseret possibile d’anghèlu,
d’ispiritu invisibile piccavo
sas formas e furavo dae chelu
su sole, sos isteddos e formavo
unu mundu bellissimu pro tene
pro poder dispensare cada bene.
Amore meu, rosa profumada,
amore meu, gravellu olezzante,
amore, coro, immagine adorada.
Amore, coro, so ispasimante,
amore, ses su sole relughente,
ch’ispuntat su manzanu in oriente.
Ses su sole ch’illuminat a mie,
chi m’esaltat su coro e i sa mente;
lizzu vroridu, candidu che nie,
semper in coro meu ses presente.
Amore meu, amore meu, amore,
vive senz’amargura, nè dolore.
Si sa lughe d’isteddos e de sole,
si su bene chi v’est in s’universu
are pothiu piccare in d’una mole,
comente palumbaru m’ippo immersu
in fundu de su mare a regalare
a tie vida, sole, terra e mare.
Unu ritrattu s’essere pintore,
un’istatua ‘e marmu ti vachia
s’essere istadu eccellente iscultore,
ma cun dolore naro: “Non d’ischia”.
Ma non balen a nudda marmu e tela
in cunfrontu ‘e s’amore d’oro vela.
Ti cherio abbrazzare egh’e basare
pro ti versare s’anima in su coro;
ma da lontanu ti deppo adorare.
Pessande chi m’istimas mi ristoro,
chi de sa vida nostra tela e tramas
han sa matessi sorte prite m’amas.
Sa bellesa ‘e tramontos, de manzanu
s’alba, aurora, su sole lughente,
sos profumos, sos cantos de veranu,
sos zeffiros, sa brezza relughente
de su mare, s’azzurru de su chelu,
sas menzus cosas dò a tie, anghèlu.
Non trovo riposo, amore, cuor mio:
il mio pensiero volge a te ogni momento.
Non esser triste, gioia d’oro,
non dispiacerti e non stare in pensiero.
Ti giuro che desidero solo te
perché ti amo, ti amo, ti amo.
Amore mio, tesoro inestimabile,
a te sola è riservato il mio affetto.
Se avessi avuto le ali per volare,
sarei volato da te mille volte:
sarei venuto per salutarti almeno
o anche solo per vederti appena.
Se potessi prenderei
la forma di un angelo,
d’uno spirito invisibile,
ruberei dal cielo sole
e stelle per formare
un mondo bellissimo per te
per poterti dare ogni bene.
Amor mio, rosa profumata;
amor mio, garofano odoroso;
amore, cuore, immagine adorata;
amore, cuore, io spasimo per te,
amore, sei il sole lucente
che spunta la mattina in oriente.
Sei il sole che m’illumina
e m’esalta cuore e mente;
giglio in fiore, candido come la neve,
sei sempre presente nel mio cuore.
Amor mio, amor mio, amore:
vivi senz’amarezza né dolore.
Se la luce delle stelle e del sole
e tutto il bene che c’è nell’universo,
avessi potuto prender tutto in una volta
mi sarei immerso come un palombaro
in fondo all’oceano per regalare a te
vita, sole, terra e mare.
Se fossi pittore ti farei un ritratto,
una statua di marmo
se fossi un eccellente scultore.
Invece dico con dolore: “Non lo so fare”.
Ma il marmo e la tela nulla valgono
in confronto alla vela d’oro dell’amore.
Vorrei abbracciarti e baciarti
per versare la mia anima nel tuo cuore.
Ma debbo adorarti da lontano.
Il pensiero del tuo amore mi conforta,
tela e trama della nostra vita
hanno la stessa sorte perché m’ami.
La bellezza dei tramonti, l’alba del mattino,
l’aurora, il sole splendente,
i profumi, i canti della primavera,
gli zefiri, la brezza rilucente
dal mare, l’azzurro del cielo
le cose più belle dono a te, angelo.
Per chiudere con un sorriso faccio una proposta dissacratoria: cantare sulla frase musicale di “Non potho reposare” le prime quattro rime di un saltarello medievale dell’Italia centrale il cui testo proviene da un manoscritto conservato alla British Library di Londra, nel quale sono contenute tutte le musiche strumentali italiane di cui sia rimasta traccia.
Non era usanza di quel tempo mettere per iscritto musiche non vocali, per questo motivo sono andate perse quasi tutte le musiche strumentali del Medioevo italiano.
Come si vede si tratta di una cosa seria, il cui significato fra l’altro è tutt’altro che spensierato, e non di una goliardata,
Non posso far bucato che non piova
Se’l tempo bello, subito si turba,
Balena, tuona, e l’aria si raturba
Perch’io non possa vincer la mia prova.
Così sanza ragion m’è fatto torto
Ch’io servo ogni uomo e ciascun mi vuol morto
Di che la vita mì viver non giova
Qualcuno dirà: ma cosa c’entra ? niente, si fa per cazzeggiare !