Questa è la storia di quel signore distinto di mezza età che potreste avere incontrato nella vostra sala preferita a ballare con partner sempre diverse, mai in atteggiamento confidenziale con alcuna di esse, mai seduto in allegra compagnia. Una figura che siete sicuri di aver già visto altre volte proprio lì, ma di cui vi sfuggono i riferimenti più precisi, il nome, la donna, gli amici e, forse, verrà di chiedervi cosa lo spinge in sala, perchè dopo aver ballato con tutte, entra ed esce sempre da solo dal locale, cosa lo fa divertire, che cosa sta cercando. Vorrete insomma dargli un contenuto, una storia.
C’era un tempo in cui ogni mattina si svegliava allo stesso modo: volgendo il capo verso destra a cercare il profilo della schiena di lei. Lei dormiva sempre poggiata sul fianco destro con le gambe raccolte, le ginocchia sul petto ad occupare poco spazio, alla ricerca di calore e sicurezza, il braccio sinistro lungo il corpo, la testa poggiata su due piccoli cuscini.
Intravedeva nella penombra la curva della schiena non ancora abbronzata di inizio estate, i laccetti sottili della camicia da notte sulle spalle leggermente scoperte dal lenzuolo, i fianchi pieni, i capelli chiari rilasciati sul cuscino, l’ampio dorso alzarsi ed abbassarsi con il ritmo pigro del respiro notturno.
Si soffermava a carpirne sulla pelle il leggero profumo della notte appena trascorsa, aspirando con le narici dilatate ed i sensi già accesi, tentava di penetrare i pensieri che ne animavano gli ultimi sogni per forzarvi la sua presenza. Avrebbe voluto essere in quei sogni, avrebbe voluto essere parte del suo inconscio.
Aspettava così, immobile, per minuti, decine di minuti, quarti d’ora, accadeva infatti che lei si svegliasse sempre un poco più tardi con il trascorrere degli anni. Non osava toccarla, amava quello stato di sospensione in cui tutto appare ancora fumoso e indefinito, temeva la concretezza della realtà e ne ritardava il sopravvento.
Poi, finalmente, lei muoveva leggermente le spalle, allungava il braccio per ritrovarlo con il tatto, aspettava ancora qualche istante e, infine, volgeva il viso verso di lui.
La rarefatta attesa terminava, si rompeva con l’ineluttabilità di una vaso prezioso che senti sfuggirti dalle mani e, incapace di fare niente per impedirlo, vedi scivolare e cadere a terra, e il giorno poteva iniziare ad esistere come entità di tempo reale.
Di fatto era avvenuto solo negli ultimi mesi che si svegliasse prima di lei, per tutti gli anni della loro vita in comune aveva dormito di un sonno pesante ed ignaro fino al limite delle possibilità concesse dal suono della sveglia, spesso era lei che lo destava con una tazza di caffè caldo ed amaro.
Quelle volte lui apriva gli occhi e incontrava il suo sguardo fisso con una espressione che non aveva mai saputo interpretare. Era come se lei lo esaminasse, scrutasse ogni dettaglio del viso, i pori, le rughe e formulasse tra se piccole considerazioni segrete sul suo aspetto, o forse voleva solo captare i pensieri del primo risveglio o afferrare il primo dischiudersi degli occhi al giorno per cogliere l’attimo di sorpresa che ogni mattina si rinnovava in lui trovandosela davanti, così vicina. Forse era solo il suo desiderio di fondersi con il suo sonno, diventare il suo sonno, il suo oppio. Lei sapeva bene quanto da sempre gli piacesse dormire, come si sentisse a proprio agio nel sonno. Se fosse riuscita a entrarne a far parte era certa che lui si sarebbe sentito davvero completato.
Ecco, due anni dopo lui ancora si svegliava allo stesso modo, con gli stessi gesti anche se sapeva che girando la testa verso destra non avrebbe trovato nulla e nessuno, solo il vuoto del letto e la parete della stanza vuota, un’altra vita.
Era come richiamare ogni volta dolore e amore, riprovare un brivido, un morso feroce al centro del petto che durava attimi, che ne proiettava furiosamente l’anima verso il bordo del letto, verso un orizzonte verticale senza fine, un precipizio profondo, una voragine aperta verso nulla che inghiottiva lo spirito nel vuoto e, improvvisa, si scioglieva non rilasciando che la consapevolezza della solitudine.
Il risveglio era la parte più difficile della giornata.
Quei minuti che intercorrevano tra l’ultimo sonno ed i piedi poggiati a terra a lato del letto erano la sua illusione e la sua pena, erano ciò che segnava la sua vita: era un uomo irrimediabilmente solo e, quel che è peggio, ne era consapevole.
Ambrogio era nato sessantadue anni prima in una cittadina di provincia, una vita vissuta da impiegato comunale, una carriera regolare, una vita tranquilla divisa con la moglie, ventisette anni di matrimonio senza pensieri, un bell’appartamento, niente figli né animali, e la passione del ballo liscio, scoperta in età matura e con lei condivisa.
Una sera di dieci anni prima, trascinati da amici, erano entrati al Papillon Rosso, un circolo che era subentrato ad una vecchia casa del popolo di periferia, trasformata in pizzeria e sala da ballo. Dopo la pizza, cattiva, erano saliti al primo piano ed entrati nella sala da ballo: era stata come un’illuminazione.
Seguirono tre anni di scuola di ballo sempre al Papillon e poi innumerevoli sere del sabato passate nelle sale di tutta la regione a ballare in compagnia o da soli, una passione scoperta per caso che aveva caratterizzato la loro vita. Anni semplici e belli, vissuti con leggerezza, quieti e allegri, senza malattie o figli da sistemare in una sospensione temporale che magicamente li riportava indietro ai loro anni migliori.
Poi un dolore sconosciuto che nel giro di due settimane e in un crescendo silenzioso aveva impedito i movimenti veloci di lei, costringendola a rimanere seduta quando le altre coppie si lanciavano in pista, prima con i veloci jive, poi col cha cha, infine con qualunque danza e con qualunque ritmo.
Un mese e non aveva più la forza nemmeno di uscire la sera per andare al dancing con gli altri, un’altra settimana e dovette ricorrere al busto rigido per stare eretta in poltrona senza dolore, un’altra ancora e finalmente la diagnosi divenne certa e spietata.
Un sabato sera, in condizioni già compromesse, Ambrogio la convinse ad uscire con gli altri, andarono di nuovo al Papillon Rosso, riuscirono a danzare ancora con piccoli passi di beguine, lui la guidava con cura quasi sollevandola da terra per renderla più leggera, lei era tesa, combattuta tra la sofferenza e il desiderio di non lasciare quelle sensazioni per sempre. Erano i loro ultimi balli assieme e lo sapevano.
Quella che iniziò il giorno successivo fu l’ultima settimana per lei: morì in casa di mercoledì mattina quando in strada c’era il mercato della verdura e si poteva udire dalle finestre la voce degli ambulanti.
Da allora erano passati due anni, Ambrogio non si era rifatto una vita, anzi non si era ripreso proprio: trascorreva la giornate avvolto in una apatia struggente, commiserandosi e lasciandosi invecchiare.
Ma ogni sabato, qualunque stagione e con qualunque tempo, da solo, indossava i pantaloni neri, la camicia bianca con i gemelli e il gilet nero, infilava nella borsa le vecchie scarpe da sala lucide e si recava a ballare.
Nelle tre ore successive si trasformava: faceva da nave scuola per le ballerine principianti e il partner competente per quelle brave; signore e signorine di ogni età ballavano volentieri con lui, distinto e sensibile, un compagno non invadente e professionale che con gentilezza le accompagnava e le sosteneva premuroso nei loro sforzi, senza chiedere niente in cambio.
In quelle ore ballava di tutto, lenti e veloci, sorrideva di un sorriso garbato e un poco distante con galanteria, incoraggiava tutte e si inventava sempre un modo per complimentarsi con loro per i progressi o per la scioltezza, per la leggerezza o il senso del ritmo, si inebriava della musica e del movimento coordinato dei passi dimenticandosi di sé, estraniandosi dalla propria realtà.
Era uno svago bellissimo, galleggiare in una dimensione astratta senza tempo e senza dolore, solo la concentrazione nel seguire il ritmo e l’armonia dei movimenti, uno due tre, giro a sinistra, quattro cinque sei, chassè, tre passi avanti, tacco, pianta, taccopianta, giro spin e via ancora per balli e canzoni, valzer e tanghi, mazurche rumbe e merengue, tutto il suonabile e tutto il ballabile senza fermarsi, cambiando compagna ad ogni giro e ricominciando daccapo, tra giravolte e passi doppi, aperture e ampie falcate, un tourbillon di movimenti composti, inesauribile, sempre sorridente sempre educato, fino alla stanchezza totale che finalmente lo coglieva e lo restituiva spossato di ogni energia.
Quello era il tempo di salutare, tornare a casa e cominciare una nuova settimana.
Difficile definirlo divertimento era più una maratona contro la realtà e contro se stesso, lo sfogo che dava un piccolo motivo valido al suo sopravvivere.
L’unico locale dove non mise mai più piede fu il Papillon Rosso.